Via Pitagora - già "Parriadi"

Questa via ha il nome di un grande matematico, nato nell’isola di Samo ed emigrato nell’Italia Meridionale, dove fondò, a Crotone, una scuola frequentata da saggi e sapienti ai quali trasmise l’amore per i numeri e le scoperte matematiche. È una strada stretta e a senso unico, le macchine, infatti, possono percorrerla solo a scendere. Essa è interrotta da numerosi vichi e stradine con gradinate. Le case sono costruite, per lo più, con pietre e calce così come si costruiva un tempo. Sono a uno o a due piani, con piccole scale esterne sulle quali è possibile vedere, nei periodi primaverili ed estivi, le vecchiette sedute sui gradini delle loro porte intente a lavorare a maglia o col fuso mentre raccontano fatti e parlano con i loro vicini del tempo, della campagna, di tutto ciò che succede in paese. Sembra un mondo diverso, quello del passato o quello di una favola. Nella strada non manca una fontana pubblica che ora, però, non scorre più. Una volta questa strada veniva chiamata “Parriadi” cioè strada di pietra. Gli abitanti non temevano il terremoto perché era difficile che potesse danneggiare questo luogo così sicuro. Nello stradario del 1866 è riportata con il suo toponimo “Perrieri” e ne viene indicata la lunghezza: m. 700, compresi i vichi. È un costone roccioso che scende verso la “Piazza.” In alcuni rogiti del notaio Giuseppe Cimino, risalenti al 1875, la si rinviene con la denominazione attuale. Vi abitò gente laboriosa, industriosa, intraprendente, impegnata nel sociale e che espresse abili artigiani e validi professionisti, in ogni suo tratto fervevano le attività. La mattina, “accanto ai Palaia,” si aveva l’impressione di trovarsi nel corale di una scuola: giovani con i libri sottobraccio che andavano su e giù. Arrivavano nella strada cantilene strane: ...rosa, rosae, ecc., letture incomprensibili: ...Gallia est omnis divisa ..., nomi eccentrici: ...Achille, Ulisse, Ettore ...ecc.: erano i giovani che prendevano lezioni da Don Ciccio e Don Peppino. I due sacerdoti della famiglia Palaia svolsero opera meritevole: educarono ed istruirono per decenni le generazioni che si sono susseguite dagli anni trenta agli anni cinquanta. Terminata la scuola elementare, per chi intendeva proseguire negli studi, Don Ciccio e Don Peppino, rappresentavano un punto di riferimento, un passaggio obbligato: le scuole secondarie erano a Catanzaro e non tutti avevano i mezzi finanziari per andare in convitto e frequentare regolarmente. Don Ciccio e Don Peppino ovviarono all’inconveniente e nelle loro case si studiava di tutto: italiano, latino, greco, matematica, lingua francese, allora era di moda la lingua della sorella latina. Si studiava seriamente e non erano consentiti lassismi o pause: sul ragazzo, avviato agli studi, la famiglia aveva impegnato un capitale di sacrifici, che si rinnovavano giorno dopo giorno. Una bocciatura era “na ruvina de casa”! Pochi passi in avanti, la “conza” e il trappeto di Peppa Petitto, persona laboriosa, intraprendente, ricco d’iniziative. A tutti, torna cara la memoria del figlio, il dott. Francesco già Primario del Reparto Neurologico dell’Ospedale Pugliese di Catanzaro, che nella sua breve esistenza fece onore a Girifalco. Appresso, la famiglia Scalone: giovani ingegnosi, a Natale le loro statue di argilla andavano a ruba. In capo alla salita, mastro Domenico Riccio: un capomastro muratore; rispettato da tutti, ritenuto una persona di gusto e di ingegno; gli faceva buona compagnia il suo vicino di casa mastro Micu Scicchitano, altro abile muratore. Là, presso la fontana, Ciccio Loiacono, gran mastro, che fino a quando non si occupò nell’ospedale, seduto al suo desco di calzolaio, sfornava veri capolavori. Da ricordare Saveruzzo Riccio, il sarto dei sacerdoti. Gli abiti talari che uscivano dalle sue mani si diceva che “andassero a pennello”. Echeggiavano, tuttintorno, nei pomeriggi, le note del violino del dott. Rocco Giampà. Il buon don Nicola De Stefani chiamava a raccolta nel suo orto, nella grande baracca, i giovani del vicinato che al primo segnale, lesti accorrevano: da Don Nicola c’era sempre da “rimediare” qualcosa! Le ricamatrici, le sartine sedute ai gradini esterni guardavano alla piazza, il salotto cittadino di allora. E il prof. Magno? Quando da Roma si concedeva una vacanza, gli amici e i conoscenti se lo contendevano: un altro professionista che portò alto il nome della sua terra. Ma, non si può dimenticare “u muriaddu”, un muretto che ora non c’è più. Si diceva che l’avessero fatto per impedire che le acque piovane da Via Fontana andassero a finire nel palazzo De Stefani. Quante serenate “o muriaddu”, quanti canti! Spesso interrotti dall’improvviso spuntare dei carabinieri in perlustrazione! Da dentro, si sentivano i passi concitati, frettolosi sperdersi per i vichi circostanti e il ronzio delle corde delle chitarre sbatacchiate nella corsa. Da settembre, poi, per la strada incominciava ad espandersi l’aspro odore dei vini. Apriva il palmento dei Palaia: vi era una botte così alta e grossa che per versarvi il mosto si doveva mettere una scala; apriva, pure, il palmento di Luminatuzza Giglio. Aprivano verso dicembre i trappeti, sia quello di Peppa Petitto che del dott. Giampà. Gli stagnini, i “coddarari”: i Vonella, prima che divenissero negozianti, e i Marinaro, gente laboriosa che si guadagnava il pane lavorando sodo. Mastro Vito Sgrò, Cavaliere di Vittorio Veneto, uomo laboriosissimo, forse lavorò tutto il legname di castagno proveniente dai nostri boschi. Ed ancora una miriade di contadini benestanti, onesti lavoratori, i cui cognomi sono stati sempre pronunciati con grande rispetto: Quaresima, Signorelli, Marra, Strumbo... Per molti anni, sino al 1939, là, dove la strada si slarga in una piazzetta, vi fu la Caserma dei Carabinieri; era diretta dal brigadiere Rago, il terrore per chi per sua sorte avesse avuto problemi con la Legge. Era proverbiale la sua severità!